SOLIDITÀ DELLA LUCE
Scrivendo nel 2009 del lavoro di Raffaele Cioffi, in occasione della mostra dell’artista a Villa Bagatti Valsecchi, Claudio Olivieri parlava di “sipari”: era una definizione precisa, seguita dalle riflessioni di un pittore sensibile e acuto osservatore della realtà e del lavoro delle generazioni più giovani. Un pittore che parla di un altro pittore conduce inevitabilmente la sua lettura in relazione alla propria ricerca e ai fondamenti di poetica che lo hanno animato, ma in questo caso il dialogo risulta particolarmente felice perché colloca il lavoro di Cioffi dentro una determinata linea di sviluppo della pittura, ma dichiara bene anche la distanza, la specificità di una generazione rispetto a quella da cui virtualmente ha ricevuto il testimone.
L’astrazione assoluta di Raffaele Cioffi, del tutto svincolata da referenti esterni, ha una implicita valenza spirituale: la ricerca percettiva sulle dissolvenze, sulle reazioni retiniche del colore e su una struttura ritmica del trascolorare da una cromia alla successiva, infatti, porta con sé una proiezione in una dimensione immateriale trascendente: una dimensione di costruzione dello spazio incerta rispetto ai canoni di proiezione matematico-prospettica, ma che proprio per questo si orienta verso un coinvolgimento dello spettatore in un ambiente altro, ignoto ma al tempo stesso mistico.
La luce dei quadri di Cioffi è abbagliante, giocata su contrasti netti sensibili, forse, alla cultura visiva del neon colorato e agli accostamenti psichedelici che non avrebbero mai fatto parte, ad esempio, della tavolozza di pittori più “lombardi”, di una generazione precedente alla sua: lo scarto di scelta estetica è proprio in una sensibilità verso un impatto di immagine che porta in sé l’irruenza abbacinante di un mondo ad alto tasso di rumore visivo, che non impedisce, tuttavia, la possibilità di una rivelazione finale.
I problemi messi in campo, tuttavia, non sono concettualmente mutati: la restituzione di una spazialità attraverso l’uso del colore come valore plastico e al contempo la ricerca di una possibilità di ricavare da questo un effetto di intensificazione luminosa. Anche il medium non è diverso: la tela che diventa un diaframma sulla cui “pelle” il pittore interviene per solo uso del colore ad olio. A mutare, però, sono non solo i procedimenti, ma la logica di costruzione dell’immagine ad essa sottesa e, soprattutto, la cultura visiva che vi sta a monte.
È proprio sul problema della luce che si misura la distanza fra la generazione di Cioffi (classe 1971) e quella nata nel corso degli anni Trenta, come Olivieri o Valentino Vago: per gli artisti più giovani, nati dalla fine degli anni Cinquanta, la luce ha una compattezza, uno spessore, quasi un “peso” più solido e costruttivo delle romantiche evanescenze atmosferiche e respiranti dei più anziani maestri. La ricerca di Raffaele Cioffi si è interrogata infatti sul modo in cui era possibile fare pittura attraverso l’utilizzo di strutture primarie del linguaggio artistico e dando ampio spazio al colore come impasto cromatico denso e smaltato.
Lo dichiara inequivocabilmente un’inedita nettezza nel marcare i partiti di luce e di ombra. Se ne potrebbe dare una lettura postmoderna, come se si fosse passati dalla variabilità del cielo e delle stagioni alla fissa univocità della luce al neon che si accende come un’improvvisa apparizione centrata su un punto di irradiazione ben localizzato e non distante. Ma anche questo non basta.
Bisogna riavvolgere il filo della ricerca di Raffaele Cioffi e della critica che l’ha accompagnata per mettere a fuoco, nella sua evoluzione, i passaggi e gli snodi di questo rapporto con la luce e con il colore.
Claudio Cerritelli, presentando la mostra di Revere del 2001, facendo quindi un bilancio dei primi dieci anni di lavoro di Cioffi, parla di una struttura «apparentemente razionale» dell’immagine basata su un principio architettonico elementare: le sue tele sono delle vere e proprie «porte» che «suggeriscono» uno spazio, anzi la soglia di uno spazio «che la vertigine del pensiero afferra lentamente». Entro queste coordinate, però, registra l’impressione di confrontarsi con «un percorso che dalla misura calcolata del gesto pittorico procede verso la sua purificazione, un processo di lettura durante il quale si avvertono non solo le vibrazioni del colore ma soprattutto il desiderio di far convivere diverse temperature, dal caldo al freddo, dal sensuale al mentale, dal fisico all’immateriale, dal luogo circoscritto a quello dilatato oltre se stesso». Era un momento di passaggio cruciale, per l’artista, quello a cavallo con la svolta del millennio, un passaggio che il critico definisce «dalla costruttività del gesto alla sua vaporizzazione», da un assieparsi di segni verso una sua effusione dello stesso dentro strutture più ampie. L’esperimento è totalmente entro i confini della pittura: Cioffi, fa notare sempre Cerrielli, non ricorre infatti per le sue opere a titolazioni che possano distrarre dalla concretezza della pittura, o che spostino l’attenzione verso problemi di contenuto. Il contenuto infatti è il medium stesso, il linguaggio della pittura che si palesa come un’apparizione sulla tela e che cerca di far affiorare un effetto di luce dall’accostamento di toni talvolta liberi e talvolta circoscritti entro le forme della geometria elementare: «consapevole che il lavoro della pittura non ha senso al di fuori delle sue tracce sensibili» si legge ancora nella presentazione del 2001, «l’artista scruta ulteriori spazi di visibilità, riflette sulla formazione del suo gusto pittorico, crea una sintesi dei modi di dipingere su cui s’è esercitato, giorno dopo giorno».
Che cosa era avvenuto dunque in questo lasso di tempo di quasi dieci anni? In estrema sintesi, la trasformazione era partita da un lavoro sulla superficie come epidermide sensibile da riempire di tracce a campo da strutturare attraverso tracciati elementari che marcassero una distinzione tra figura e sfondo secondo indicazioni di carattere “architettonico”. Alla metà degli anni Novanta, infatti, Cioffi era arrivato a riempire la superficie di piccoli segni, come un’immersione dentro una foresta di tratteggi a pennello che potevano suggerire, nella loro giustapposizione, un movimento, o meglio una vibrazione sensibile. Era un’operazione di forte autodisciplina, fatta di esercizi di pazienza nel riempimento del campo di tratti uguali uno accanto all’altro, secondo un procedimento caro alle avanguardie di segno di due decenni precedenti, ma con una senso del colore che rimontava a una lezione precedente, di cui forse nelle aule di Brera, dove per decenni aveva insegnato Guido Ballo, poteva risuonare ancora una eco: la tessitura di quelle tele da parte di Cioffi, infatti, potrebbe somigliare a un’operazione di ingigantimento di porzioni minimali di pittura divisionista, travasata però in un contesto di pura pittura. Del resto, a Brera segue le lezioni di storia dell’arte Giovanni Maria Accame, che scriverà di lui nel 2009. Sono convinto infatti che sia legittima una periodizzazione della produzione artistica milanese, almeno per il secondo Novecento, non soltanto sulla base di movimenti e tendenze, ma anche per filoni di mentalità e di approcci al mestiere che partano non solo dalla lezione dei maestri, ma anche dal’apporto intellettuale dato dai docenti di storia dell’arte dell’Accademia di Brera: come cambia, per esempio, la visione generale di chi seguì le lezioni di Eva Tea, prima della venuta di Ballo, e successivamente di Accame?
Tornando a Cioffi, il passo successivo, dopo esperienze di approccio alla tela con segni larghi di colore fresco su colore fresco, era stato di inserire delle figure geometriche come strutture del campo: poteva trattarsi di forme semplicissime, oppure di fasci più scuri marcatamente delimitati dentro delle bande nettamente ritagliate dallo sfondo e dissolventi verso le estremità, come delle porte o delle fessure fra l’illusione di uno spazio di cui però non si offrono in alcun modo le coordinate. Le losanghe in prospettiva di tono schiarito che si aprono al centro di queste tele, per le quali è forte la tentazione di identificare un precedente suprematista, sono infatti come delle finestre o delle fessure aperte nella tela che rimandano a una dimensione ulteriore, da collocarsi al di là di quella soglia che, a questo punto, assume l’identità di una barriera o di un limite posto in controluce.
Questa idea aveva introdotto un metodo di lavoro che Cioffi avrebbe approfondito nel tempo, procedendo verso una organizzazione per griglie perpendicolari, marcando chiaramente la distinzione fra zone di colore con degli stacchi netti come delle quinte architettoniche, che scandiscono un ritmo, un “continuum”, come suggerisce il titolo della mostra presentata da Francesco Tedeschi nel 2005. Tedeschi parla qui di «verticalità di gesto su una orizzontalità di sviluppo»: Cioffi, infatti, lavora su tele orizzontali come paesaggi (o come dei monitor o dei sipari teatrali), ma suddividendo poi quello spazio in bande verticali, con quella che il critico definisce una geometria «virtualmente espulsa». Ancora una volta c’è un gesto che è un esercizio di pazienza, ripetuto su uno sviluppo verticale reiterato dall’alto verso il basso su tutta la lunghezza della tela. «La sua pittura», si legge nel catalogo del 2005, «è sensibile e si rivolge ai sensi, in primo luogo, fondandosi su qualità di visione che toccano i caratteri percettivi, attraverso la naturale predisposizione a cogliere qualità e peso di quel colore che coincide con lo spazio». Si tratta infatti di grandi tele in cui non è presente disegno progettuale, ma in cui l’immagine si sviluppa direttamente sulla tela e in corso d’opera, senza la possibilità di una vera pianificazione dell’intervento: è possibile un’azione gestuale che imprime un segno, ma questo è il risultato di un’azione sul colore e attraverso il colore, e che si verifica nel corso di un processo di stratificazione, di sovrapposizione e di raschiamento di campiture. Intatti, scrive sempre Tedeschi, «l’impronta di fondo rimane quella di un intervento su luce e colore che tende a dare una sensazione di spazio-tempo risolto nella pittura e sulla superficie, dove l’“astrazione” è quella della dimensione interna e intrinseca del lavoro pittorico, tutta espressa nell’immediatezza della manifestazione dei suoi mezzi».
Si poneva sempre più pressante, nella pittura di Cioffi e nella critica che se ne occupava, il problema di trovare una definizione per quella particolare qualità luministica presente nei suoi quadri: come si diceva all’inizio, si tratta di un effetto di luce cangiante, quasi metallico, ben lontano da intenzioni spirituali, o dalla tentazione di suggerire l’idea di un’apparizione mistica. Difficile, dunque, stabilire quale rapporto queste immagini possano intrattenere (o non intrattenere) con la realtà.
A tal proposito, la posizione di Accame, nella presentazione della mostra personale a Villa Pisani di Strà nel 2009, è molto netta: Cioffi non è un pittore astratto, bensì un artista che fa i conti con una realtà nuova, tecnologica, esplicitamente dichiarata, «proprio perché dichiara dei temi che sono svolti visivamente, orientata alla descrizione di accadimenti che sono in parte legati a fenomeni fisici e in parte metafisici». Si tratterebbe dunque di una luce “televisiva”, come nell’intento di competizione con un monitor che trasmetta un canale aniconico.
In effetti, alcuni interventi espositivi dell’artista possono legittimare questa interpretazione. Nella mostra a Villa Bagatti Valsecchi, per esempio, Cioffi aveva realizzato alcuni lavori da poter integrare nello spazio architettonico, collocando le tele nelle cornici di stucco murate lasciate vuote sopra le porte o sulle pareti degli appartamenti in cui si articolava la mostra. Messe in quel contesto, fortunatamente documentato da copiose riprese fotografiche, l’idea del monitor appariva molto chiara: dentro uno spazio architettonico dato, i quadri si presentavano come presenze contrastanti, di forte impatto visivo, come un’apparizione cromatica spiazzante (ma di salutare spiazzamento) inserita in quel contesto. Cioffi non è il primo, naturalmente, a servirsi di cornici architettoniche preesistenti come collocare per ospitare temporaneamente i suoi lavori: la sua generazione, anzi, ha raccolto i frutti degli interventi di arte ambientale che avevano colorato le pareti esterne dei palazzi (anche antichi) alterando per un momento le abitudini visive del fruitore. Il quadro, così, diventa uno schermo che si dischiude su una dimensione ulteriore, e irreale. Per questo, come scrisse il pittore Claudio Olivieri, i quadri di Raffaele Cioffi diventano come dei “sipari” su una dimensione profonda fatta di improvvisi fasci di energia. Ma questa osservazione apre a un altro problema, riassunto efficacemente ancora da Accame: quella di Cioffi sarebbe «la ricerca di un interno della pittura, la penetrazione oltre la pellicola di superficie per svelare spazialità e luci che riflettono, metaforicamente, lo scavo interiore dell’artista».
Arrivati a questo punto, però, la sua pittura è arrivata a un grado di complessità, artigianale e concettuale, maggiore rispetto al passato: il procedimento si è stratificato rispetto alle austere e ruvide “prospettive interiori” del decennio precedente. La scansione orizzontale, a cui si è già accennato, diventa un elemento portante, ma diventa fondamentale soprattutto la scelta definitiva di una partizione dello spazio in bande verticali, cadenzate secondo spessori e trattamenti di volta in volta variabili, in cui la pittura è diventata smaltata e brillante, rimodulata in spessore e applicazione per ogni porzione di tela, in modo da creare un movimento a compartimenti ma comunicante di parte in parte. Cioffi lavora per strati, per grandi campiture su cui poi ritorna a pennello per schiarire o scurire, oppure mascherando con velature che lasciano trasparire la preparazione, o sovrapponendo un colore all’altro provocando un’interazione fra i due, magari grattando la stesura superiore per fare affiorare quella sottostante. In ultimo, poi, graffi filiformi e continui, pennellate altrettanto allungate come improvvise scie di luce e colature calcolate arricchiscono la superficie complicandone la definizione fenomenologica.
Dentro questa struttura, Cioffi è giunto anche a un breve ciclo sul tema della croce, modulandone la presenza di volta in volta secondo modi differenti: a volte la croce è un esplicito inserto iconografico che affiora da una fitta coltre luminosa; altre volte, invece, evidenzia la struttura primaria del campo. La riflessione, dunque, si muove su due piani: da una parte, la croce è un elemento narrativo nel racconto; dall’altra diventa invece un tutt’uno con il campo stesso, che volentieri diventa telaio sagomato e contenitore di avvenimenti pittorici. In entrambi i casi, comunque, Cioffi ha pensato un percorso “iniziatico” che porta a identificare una spiritualità di ordine maggiore anche nell’assenza di simboli espliciti.
Ma a complicarsi, nelle Croci e nei lavori degli anni Duemila, è stata soprattutto la definizione di una spazialità della rappresentazione, che a ogni passo sembra volutamente contraddirsi. Di fronte alle irradiazioni di luce più intense, infatti, si ha la percezione di una dilatazione convessa dello spazio illusorio, come se la superficie si stesse flettendo al modo di una lamiera curva che ricorda certi dipinti di Malevitch figurativo dopo la stagione suprematista: certe gonne ampie delle contadine russe che paiono cucite in lamiera piegata e cromata, che rispondono alla luce con riflessi metallici ed esatti, senza mezze misure e bruschi scatti di contrasto. Subito accanto, però, questa percezione viene contraddetta da un intervento di segno, da un graffio o da una colatura, che improvvisamente fanno piombare l’osservatore nella consapevolezza di avere di fronte una superficie dipinta e piatta: quell’illusione di spazio, o meglio di rilievo, viene negata da una colatura (o da un graffito) che, come una ferita, svela il meccanismo, riappiattisce improvvisamente tutto nella bidimensionalità del piano. Allora, nel momento in cui Cioffi gratta la superficie svela che la consistenza della sua immagine è di pura pittura: sotto un colore non c’è un piano, non c’è un sipario che si può chiudere o aprire, ma c’è altro colore pronto a venire in primo piano.
Vale la pena, però, di guardare le tele di Cioffi rileggendo il primo testo che Claudio Olivieri gli dedicò nel 2001: «io mi chiedo se sia ancora possibile dedicarsi ad una genesi dell’immagine sino a farla riemergere da una condizione segregata, quasi sopraffatta dalla accecante pervasione delle merci, della loro onnipotente presenza. […] Raffaele sa far tesoro anche del bagliore artificiale di uno schermo, dello spiovere di un raggio nell’oscurità di un suburbio, nell’attimo in cui i fari bucano il nero della notte o la foschia dell’inverno. Lui saprà farne la sorgente di una epifania che la tenacità e il desiderio travasano in pittura, alitando trasparenza e colore, costruendo varchi e soglie di un possibile sconfinare oltre la cecità, oltre l’opaco regno dell’indifferenza. Al ricatto del qui e ora e opporre l’istanza dell’infinito, al servaggio oppressivo della comunicazione la vertigine liberatoria del mistero».